Faccio zapping tra i canali della TV. 1,2,3, fino all’infinito, senza guardare nulla. Le immagini scorrono e si dissolvono sotto l’ordine del mio dito senziente. Le voci di chi mi parla si accendono e si interrompono senza che arrivino alla coscienza. Nulla cattura la mia attenzione.
Spengo.
Silenzio.
Qualche raggio di sole penetra le tende di stoffa ed illumina i tomi dell’enciclopedia. Lo schermo nero rimanda riflessi vitrei. Posso scorgere la mia immagine e specchiarmi. Ora sono solo con me stesso, dopo aver anestetizzato il pensiero per una ventina di minuti. Ora le idee possono scorrere libere, senza il giogo della censura e dell’ordine. Quanto tempo è che non penso? Ieri sera, come tutte le sere, ti sei messo a letto e ti sei fatto trascinare fino allo sfinimento nel sonno. Un mero esercizio per raggiungere il fine del riposo. Ma ora è differente, i pensieri non svaniscono come l’ultimo chiarore di una candela esausta. Ora i pensieri ti seguono e si appiccicano sulle tempie, portando con loro un ronzio sottile e continuo. Non è facile controllarli, si sovrappongono e sgomitano per farsi notare.
Il portone di casa stamattina era fieramente lucido. Tutte le parti metalliche scintillavano ed ammiccavano. Ho toccato la maniglia con fiducia ma questa era unta e riprovevole. Migliaia di mani l’hanno afferrata o sfiorata. Un istante di esitazione, deglutisco la saliva e la afferro con forza spalancando l’anta. L’aria è fresca ed accogliente ed ha un odore dolce di pollini, a tratti diventa pungente. Mi sfrego il naso con il dorso della mano. Le aiuole che mi accompagnano verso la strada e che costeggiano la piccola allegorica scalinata di entrata sono lunghe e incolte. La primavera le ha fatte come ogni anno rinascere, attirano il mio sguardo e mi fanno pensare a quanto si sono ribellate alle cesoie in pochissime settimane. Guardo le ultime foglie alla fine degli steli, sono tenere e piccole. Mi piaceva da bambino staccarle una ad una senza un perché, oppure fare scorrere tra pollice ed indice tutto il rametto fino alla punta e guardarle cadere in massa. Poco più in là la macchina di mia madre giace sotto l’ombra di un leccio con due ruote sul marmo del marciapiede. La vernice sul tetto è opaca, l’ultimo strato di lucido persiste in poche sparute chiazze. Sedici anni fa in un limpido pomeriggio di luglio ricordo che i miei genitori mi hanno portato nell’autosalone di vetture usate e hanno affidato a me l’arduo compito di decidere : grigia o blu? Della vivacità elettrica che aveva riempito la mia immaginazione di riflessi blue-marine rimangono pochi centimetri ormai. Una campana rintocca. È il megafono della parrocchia, quando ho scoperto che quei suoni non provenivano da maestose campane con tanto di frate che tira la cordicella ci sono rimasto malissimo. D’altronde la struttura non ha un campanile, ma a questi dettagli i bambini non fanno caso. L’altoparlante si sgola da quando ne ho memoria, chissà se nel tempo è stato cambiato oppure continua a scandire le mezz’ore ininterrottamente da quando l’ho scorto una domenica mattina col sole di maggio dritto in faccia. Quell’anno ero preoccupatissimo del mio album dei calciatori. La domenica era un momento cruciale della settimana, si apriva per un paio d’ore una fittissima sessione di calciomercato tra le panche di legno, fatto di bisbigli, gesti e sguardi. Conoscevo tutti i potenziali clienti e le loro squadre preferite, il problema era che io pure avevo i miei pupilli e per di più ero facilmente convincibile. Con la scusa del “te lo porto domani” ho visto talenti scivolarmi tra le mani con troppa facilità. Ovviamente l’album non l’ho mai finito. Che fine avranno fatto gli affaristi della domenica? Qualcuno lo conoscevo meglio, qualcuno solo di vista, qualcuno lo potevo definire amico. Tempo fa ho letto su internet una frase che mi ha colpito e che più o meno diceva così: “immagina che c’è stato un giorno della tua vita in cui i tuoi amici d’infanzia ti sono venuti a citofonare che è stato l’ultimo. E tu non lo potevi sapere”. Terribile pensare che le cose possano iniziare e finire senza un segno premonitore. Inspiegabilmente succede qualcosa, che non ha né corpo né pensiero, però succede e ti cambia la vita. E ti può inchiodare al dovere dei libri o al dovere del divano. Fino a che distrattamente non riprendo il telecomando e tutto scompare nel passato. C’è il notiziario, zitti tutti.
Daniele.